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Stato unico, la soluzione al conflitto israelo-palestinese?

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Due popoli, due Stati. Per la comunità internazionale questa è la soluzione al conflitto che da tre quarti di secolo lacera la Palestina. Tale soluzione è supportata non solo dai paesi che riconoscono lo Stato palestinese (ben 145 Stati membri delle Nazioni Unite su 193) ma addirittura anche da quei paesi che finora non si sono spinti fino al riconoscimento formale.

Il caso emblematico è quello degli Stati Uniti e dei loro alleati. Il governo statunitense ripete allo sfinimento che l’unica soluzione possibile al conflitto israelo-palestinese sono i due Stati. Allo stesso tempo, però, non fa nulla di concreto per favorire questa soluzione. Si tratta di un atteggiamento che accomuna molti alleati di Washington, Italia compresa. Se gli Stati Uniti e i loro alleati riconoscessero la Palestina eserciterebbero una grande pressione diplomatica su Israele, costringendolo ad aprire i negoziati con i palestinesi. Tuttavia, quasi tutti i paesi occidentali escludono l’ipotesi del riconoscimento unilaterale preferendovi il riconoscimento ex post, cioè successivo al riconoscimento reciproco tra Israele e Palestina [1].

Ad ogni modo, con o senza il convinto supporto dei paesi occidentali, la soluzione dei due Stati è tanto semplice a dirsi quanto irrealizzabile a farsi. I diretti interessati, infatti, non sono affatto disposti a concretizzarla. Il conflitto tra israeliani e palestinesi ha raggiunto un tale livello di violenza e frustrazione per cui qualsiasi compromesso territoriale è semplicemente inconcepibile. Inoltre, l’occupazione israeliana dei territori palestinesi e la progressiva colonizzazione della Cisgiordania rendono impossibile la creazione di uno Stato palestinese indipendente e sovrano.

Ci troviamo quindi in una situazione paradossale. Per una volta la comunità internazionale è finalmente riuscita a trovare una soluzione condivisa per mettere fine a una disputa annosa che si trascina da tantissimo tempo. Peccato che i protagonisti di tale disputa non siano minimamente interessati alla soluzione proposta. Questo paradosso crea una situazione di stallo che favorisce il perdurare dello status quo. Stallo dovuto anche al fatto che nessun paese sembra davvero intenzionato a impegnarsi dal punto di vista diplomatico per convincere i due interessati a mettere in atto la soluzione della comunità internazionale.

Nonostante i continui appelli e l’approvazione della maggior parte degli Stati membri delle Nazioni Unite, la soluzione dei due Stati è un miraggio, una fantasia in cui nessuno crede davvero. La soluzione più fattibile alla questione israelo-palestinese è l’esatto opposto: lo Stato unico.

Israele controlla tutti i territori palestinesi. La Cisgiordania, come noto, è occupata dal 1967. Per quanto riguarda la striscia di Gaza, dal 2007 fino all’invasione successiva all’attacco del 7 ottobre, Israele l’ha controllata attraverso un regime di quasi occupazione, imponendo un blocco terrestre, aereo e marittimo. Ora la striscia è ridotta a un cumulo di macerie e buona parte di essa è occupata dall’esercito israeliano. Quindi, con l’invasione di Gaza, Israele ha rafforzato decisamente il suo controllo sui territori palestinesi.

La soluzione al conflitto israelo-palestinese – inteso come conflitto internazionale – è perciò a portata di mano: è sufficiente che Israele annetta tutti i territori occupati. Il conflitto terminerebbe così con la vittoria totale di Israele. Detto così sembra semplice. Tuttavia, anche la soluzione dello Stato unico presenta degli ostacoli alla sua realizzazione che al momento appaiono insormontabili.

La creazione di uno Stato d’Israele indipendente e sovrano dal fiume al mare è il sogno degli ultranazionalisti. Il fatto è che costoro vogliono tutta la Palestina ma non vogliono i palestinesi. La soluzione dello Stato unico presenta infatti un enorme problema politico per il governo israeliano: i palestinesi che da decenni vivono sotto occupazione diventerebbero cittadini israeliani. Dati alla mano, lo Stato unico metterebbe a repentaglio il carattere ebraico dello Stato d’Israele.

Secondo l’istituto di statistica israeliano, al 31 dicembre 2022 la popolazione del paese ammontava a 9.656.000 residenti. Di questi, 7.106.000 (pari al 73,6 % del totale) erano ebrei, 2.037.000 arabi (21,1 %) mentre 513.000 persone appartenevano alla categoria “altro” (5,3 %) [2]. Se a questi numeri aggiungiamo i circa quattro milioni e mezzo di palestinesi che vivono nella striscia e nella Cisgiordania risulta evidente che lo Stato unico rivoluzionerebbe la demografia israeliana.

Come sancito dalla revisione costituzionale del 2018, “lo Stato d’Israele è la casa nazionale del popolo ebraico”. Pertanto non c’è posto per arabi o per altre etnie, a meno che non si tratti di nette minoranze che non minacciano la supremazia demografica degli ebrei. Ora, per uno Stato che si autodefinisce in tale maniera sarebbe come minimo paradossale avere una popolazione composta quasi per metà da persone di un’etnia diversa da quella benedetta dalla legge costituzionale.

Inoltre, lo Stato unico non solo cambierebbe radicalmente gli equilibri demografici di Israele ma causerebbe anche un inasprimento del conflitto, che è innanzitutto un conflitto tra popoli, prima che tra Stati. A ben pensarci, in effetti, lo Stato unico non risolverebbe il conflitto israelo-palestinese ma semplicemente ne cambierebbe la natura.

Attualmente si tratta di un conflitto internazionale, poiché la disputa riguarda anche lo status dei territori palestinesi. L’annessione risolverebbe la questione dello status dei territori occupati ma lascerebbe senza soluzione la questione dello status giuridico e sociale dei palestinesi. In altre parole, il conflitto diventerebbe una questione interna allo Stato ebraico. L’annessione, infatti, non pacificherà quei milioni di palestinesi che da decenni subiscono le vessazioni israeliane, nel silenzio complice di buona parte della comunità internazionale. Al contrario, tantissimi reagirebbero all’annessione scegliendo la via della lotta armata.

Gli ultranazionalisti che compongono una parte del governo israeliano hanno già pronta la soluzione a tutti questi problemi: la deportazione dei palestinesi [3]. Bisogna ammettere che il senso pratico non gli manca: la deportazione rimuoverebbe la componente palestinese della popolazione, sublimando il carattere ebraico dello Stato d’Israele. Si tratta di una soluzione tanto semplice quanto folle. Un’idea malata degna dei Giovani Turchi, la fazione che governò l’Impero Ottomano durante la Prima guerra mondiale e che per risolvere la questione armena scelse la deportazione, poi degenerata nel primo genocidio del Novecento.

Il delirio reazionario della deportazione, se portato a compimento, si tradurrebbe nell’isolamento internazionale di Israele. Persino gli Stati Uniti e i loro alleati drizzerebbero la schiena e abbandonerebbero lo Stato ebraico. Sembra quindi che la deportazione dei palestinesi sia destinata a rimanere il sogno proibito degli estremisti. Ciononostante, il problema rimane: lo Stato unico rivoluzionerebbe la demografia di Israele, imponendo il dilemma politico di definire lo status giuridico e sociale dei palestinesi. Si tratta di un dilemma esistenziale per Israele, poiché rappresenta la prova definitiva della solidità del suo regime democratico.

In altre parole, lo Stato unico metterebbe gli israeliani davanti a un bivio. Israele è uno Stato democratico o uno Stato ebraico? Considerato il tono della revisione costituzionale del 2018, la risposta è presto detta. Per intenderci, l’annessione dei territori occupati si tradurrebbe come minimo nella formalizzazione della segregazione dei palestinesi, che verrebbero privati dei loro diritti.

Tutto questo è inaccettabile per la comunità internazionale. Anche senza ricorrere all’abominio della deportazione, l’annessione dei territori occupati con la conseguente segregazione equivarrebbe a uno schiaffo in faccia a tutti coloro che, pur con poca convinzione, supportano la soluzione dei due Stati e quindi il diritto all’autodeterminazione dei palestinesi. Israele verrebbe messo all’angolo, isolato dalla comunità internazionale e abbandonato dai suoi alleati storici.

In conclusione, lo Stato unico – pur essendo di gran lunga più fattibile dei due Stati poiché la sua realizzazione dipende unicamente dalla volontà politica del governo israeliano – appare anch’esso molto difficile da concretizzare. Il fatto è che l’annessione dei territori occupati risulterebbe nella segregazione o addirittura nella deportazione dei palestinesi. Due soluzioni aberranti che distruggerebbero la reputazione internazionale di Israele, già macchiata dalla violenza vendicativa della guerra di Gaza. Stando così le cose, la continuazione dello status quo sembra essere la (non) soluzione più probabile del conflitto israelo-palestinese.

Note

[1] Bisogna riconoscere lo spirito d’iniziativa di Irlanda, Norvegia, Slovenia e Spagna, che hanno riconosciuto la Palestina, rompendo finalmente la continuità del blocco del non riconoscimento costituito dai paesi dell’Europa occidentale. Simone De La Feld, Spagna, Irlanda e Norvegia formalizzano il riconoscimento della Palestina. E annunciano: “Risponderemo alle provocazioni di Israele”, euronews.it, 28 maggio 2024. La Slovenia ha riconosciuto lo Stato di Palestina, ilpost.it, 5 giugno 2024.

[2] Population of Israel on the Eve of 2023, cbs.gov.il.

[3] Israeli minister calls for voluntary emigration of Gazans, reuters.com, 14 novembre 2023. Shalom Yerushalmi, Israel in talks with Congo and other countries on Gaza “voluntary migration” plan, timesofisrael.com, 3 gennaio 2024. Antonio Pita, Voluntary emigration”: The euphemism of the Israeli extreme right to depopulate Gaza, english.elpais.com, 17 gennaio 2024. Bethan McKernan, Israeli ministers attend conference calling for “voluntary migration” of Palestinians, theguardian.com, 29 gennaio 2024.

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