Il problema del declino della Russia
Quando la Russia occupò e annesse la Crimea l’allora presidente degli Stati Uniti commentò in maniera sprezzante l’evento. “La Russia è una potenza regionale che dimostra la sua debolezza attaccando l’Ucraina”, disse Obama scoccando una freccia mirata all’orgoglio del governo russo. L’annessione della Crimea fu il primo atto dell’incubo ucraino che da ben dieci anni tormenta il sonno dell’inquilino del Cremlino. Da quando Euromaidan ha avuto successo, infatti, la questione ucraina è diventata una priorità della politica estera russa.
Dopo aver perso tutti gli ex alleati del Patto di Varsavia e tre ex repubbliche sovietiche – tutti entrati, con gran lungimiranza, nella Nato e nell’Unione Europea – il Cremlino perse anche Kiev, che decise di allontanarsi dall’orbita russa. Mosca non perse la fiducia del governo ucraino, all’epoca filorusso, bensì di parte della popolazione, che decise di scendere in piazza (anche) per manifestare contro le ingerenze della Russia e a favore dell’associazione con l’Unione Europea.
Ma l’Ucraina non era semplicemente una vecchia provincia dell’impero come le altre. La sua importanza agli occhi della Russia non era e non è paragonabile a quella di qualsiasi altro vecchio alleato dei tempi sovietici. Un legame viscerale univa Russia e Ucraina. La politica c’entra fino a un certo punto. Era soprattutto un fatto di lingua, cultura, tradizioni e legami familiari condivisi. Fino alla vigilia del 24 febbraio, russi e ucraini erano popoli fratelli, non stranieri. Il presunto tradimento della nazione sorella ha fatto letteralmente impazzire il Cremlino, che l’ha punita con la violenza delle armi.
Le proteste filoccidentali e antirusse di Euromaidan e la conseguente guerra russo-ucraina sono state l’ultima tappa (finora) del fenomeno storico del declino della potenza russa. Si tratta di un fenomeno che si potrebbe far cominciare, in maniera arbitraria, con la costruzione del muro di Berlino, un momento cruciale della guerra fredda.
Gli Stati costruiscono muri per difendersi da una minaccia esterna, o presunta tale, per impedire cioè che nel territorio dello Stato si infiltrino soggetti ritenuti pericolosi per la sicurezza nazionale. Il vallo di Adriano, per esempio, fu costruito per mettere in sicurezza il confine settentrionale dell’impero romano, ovvero per tenere alla larga le tribù celtiche. Allo stesso modo lo scopo della muraglia cinese era quello di bloccare le scorrerie dei guerrieri nomadi mongoli.
Il muro di Berlino, al contrario, fu costruito per impedire la fuga dei cittadini di Berlino Est verso la parte occidentale della città. Attratti dal crescente benessere dei loro vicini, migliaia di berlinesi presero a fuggire verso ovest. Per i comunisti tedeschi e per i loro protettori sovietici questa migrazione rappresentava un’evidente ammissione di fallimento del sistema socio-economico comunista. Bisognava quindi impedire la fuga dei berlinesi orientali, ad ogni costo. Di fatto il muro rese Berlino Est una prigione.
A quel primo, col senno del poi evidente segno di declino ne seguirono altri. L’invasione della Cecoslovacchia del 1968, ma anche quella dell’Ungheria del 1956, dimostrarono il lato paranoico e inflessibile del governo sovietico, intollerante verso qualsiasi forma di autonomia da parte degli alleati. Ma il vero crollo della potenza russa avvenne vent’anni dopo, quando Gorbaciov perse il controllo del suo progetto riformista, degenerato non solo nello scioglimento del Patto di Varsavia, ma addirittura nell’implosione dell’Unione Sovietica.Seguirono terribili anni di crisi.
Durante gli anni Novanta la Federazione Russa non solo non era in grado di far valere i propri interessi sulla scacchiera internazionale: la sua stessa integrità territoriale venne seriamente messa in discussione dalle insurrezioni caucasiche, in particolare quella cecena. Ma la crisi era anche economica e sociale: la terapia shock, unita alla corruzione dilagante, causò infatti un netto peggioramento delle condizioni di vita.
Nel corso degli anni Duemila, forte di una congiuntura economica favorevole e grazie alla risoluzione della questione cecena, la Russia di Putin ritornò sulla scena internazionale. Il famoso discorso alla conferenza sulla sicurezza internazionale di Monaco di Baviera del febbraio 2007 segna un punto di rottura: a partire da quel momento Putin non si è fatto problemi a perseguire una politica estera progressivamente contraria agli interessi degli Stati Uniti e dei loro alleati.
Ma più delle parole contano i fatti. Un anno e mezzo dopo, nell’agosto 2008, la Russia invase la Georgia in quella che fu una guerra lampo per proteggere i separatisti dell’Ossezia meridionale. Invasione che accadde appena quattro mesi dopo il vertice Nato di Budapest, durante il quale gli Stati Uniti si dissero disponibili, in un futuro imprecisato, ad accogliere proprio Georgia e Ucraina nell’Alleanza nordatlantica.
La Russia assunse quindi una nuova postura internazionale: superato il trauma della dissoluzione dell’impero, risolti, almeno in parte, i gravi problemi interni degli anni Novanta, il Cremlino poté nuovamente dedicarsi alla politica internazionale, con la consapevolezza di essere di nuovo in grado di adottare una politica estera autonoma, caratterizzata da linee rosse oltrepassate le quali sarebbe scattato l’intervento militare.
Nonostante la ritrovata volontà di potenza, o forse proprio a causa di essa, il declino della Russia è continuato, conoscendo una drammatica accelerazione all’inizio del 2014, quando il filorusso Viktor Janukovic fu costretto a fuggire da Kiev. Si è così creata una situazione paradossale: da un lato la Russia rivendicava il suo vecchio ruolo di grande potenza, dall’altro si dimostrò incapace di mantenere la fiducia del suo più importante alleato.
Da dieci anni l’Ucraina tormenta il Cremlino. Ogni pezza è stata peggiore del buco. A forza di passi falsi, Mosca ha reso irreversibile il destino occidentale di Kiev. La Russia è così tornata al suo ruolo di nemesi degli Stati Uniti e dell’Europa occidentale. Si tratta di un ruolo che ricoprì già durante le fasi più calde della guerra fredda, ma rispetto a quei tempi ci sono delle differenze sostanziali.
L’Unione Sovietica non era solo una grande potenza politica e militare ma lo era anche da un punto di vista ideologico. Il comunismo sovietico incarnava uno stile di vita e di produzione alternativo al consumismo capitalista, così come la dittatura del partito unico si contrapponeva al pluralismo democratico. Numerosi paesi del Terzo Mondo furono ispirati e supportati dall’Unione Sovietica mentre in Italia e Francia esistevano dei partiti comunisti con una forte legittimazione popolare.
Oggi la Russia si è ridotta a fare il socio di minoranza della Cina e a elemosinare armi alla Corea del Nord e all’Iran mentre il suo potere ideologico è scarsissimo, per tacere della sua arretratezza economica. Il Cremlino rivendica il ruolo di alfiere di un nuovo sistema internazionale multipolare in cui il potere degli Stati Uniti è finalmente bilanciato da altri attori statuali. Si tratta di una retorica che può far presa sui governi ma che è assolutamente inadatta a conquistare i cuori e le menti delle persone, specialmente quelle che vivono nella sfera d’influenza statunitense.
In questa situazione caratterizzata da un’isterica propaganda bellicosa e antioccidentale si inseriscono la ribellione dei mercenari del gruppo Wagner e l’incursione ucraina nella regione di Kursk. Si tratta di due eventi molto diversi ma che sono accomunati dal fatto di aver dimostrato al mondo intero le fragilità del regime russo e la sua impreparazione per una guerra di lunga durata. Le ennesime conferme di quanto siano velleitarie le ambizioni di potenza di Putin e della sua cerchia.
Il governo russo sembra così assomigliare a un anziano scorbutico e paranoico che non vede altro che complotti ovunque intorno a sé e che campa nutrendosi dei ricordi di un passato lontano e glorioso. Una persona solitamente manifesta questi sintomi di senilità in età avanzata, quando è in pensione. L’inquilino del Cremlino, invece, continua ad essere uno dei protagonisti della politica internazionale e siede su un trono fatto di seimila testate nucleari. Un monito apocalittico, per non dimenticarci che il declino della Russia è ben lungi dal manifestare le sue più devastanti conseguenze.
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