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Ripercorrendo il processo di integrazione - Parte quattro: "I trattati di Roma."

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Se tutte le strade portano a Roma, quella del processo di integrazione non ha fatto eccezione. Dopo la parentesi negativa della CED, la storia dell’Europa riparte da Roma non senza difficoltà, dovendo fare i conti, tra le altre questioni, con una figura ingombrante come quella del Generale De Gaulle.

 

 I trattati di Roma. Una ripartenza senza spinte federaliste.

In seguito, il 25 marzo 1957 viene raggiunta una tappa fondamentale con nel Progetto di integrazione con la firma dei Trattati di Roma. Il primo Trattato ha istituito la Comunità economica europea (CEE) mentre il secondo dava vita alla Comunità europea dell’Energia Atomica (EURATOM). La cerimonia per la firma si è celebrata nella Sala degli Orazi e Curiazi nel Campidoglio.

Allo scopo di ravvicinare le politiche economiche degli Stati, la Comunità Economica Europea prevedeva la conformazione di un mercato comune europeo basato sulla libera circolazione delle persone, dei servizi delle merci e dei capitali. Questi sono stati i primi passi di un’unione doganale assecondata da politiche comuni nei settori dell’agricoltura e del commercio. Per quanto riguarda invece la Comunità Europea dell’Energia Atomica, ovvero, l’Euratom, essa è stata istituita allo scopo di coordinare la ricerca sul nucleare civile tra gli Stati aderenti.

L’unico partito a votare contro la ratifica dei Trattati di Roma fu il PCI. I vertici del Partito Comunista definirono il Mercato Comune Europeo come “la forma sovranazionale che assume nell’Europa occidentale il capitale monopolistico”. In quel dibattito si è verificata la rottura del Frontismo. Socialisti e Comunisti si mostreranno divisi e le diverse posizioni verranno a seguito illustrato nei rispettivi giornali di Partito. In quel periodo l’Avanti e l’Unità intensificheranno la pubblicazione di articoli che riguardavano i Trattati di Roma.

Il Congresso del PSI tenutosi a Venezia nei primi giorni di febbraio segnò un “prima” e un “dopo”. La rottura con il PCI era ormai insanabile. La miscela tra i mutamenti del ’56 e le ambizioni di Lelio Basso di aprire alla DC e di partecipare all’interno dell’esperienza di governo ispirò un cambio di rotta definitivo per i socialisti italiani che, già nel 1953, strizzavano timidamente l’occhio all’Alleanza Atlantica. Pietro Nenni proverà a rilanciare il PSI attraverso un sostegno incondizionato alle istituzioni democratiche smarcandosi dal socialismo reale e, quindi, dai Comunisti. Promuove inoltre un’Europa autonoma, approva l’EURATOM e si astiene di fronte al MEC.

I risvolti del processo di integrazione sul terreno del dibattito interno italiano servono per illustrarci le fratture che si creavano intorno al Processo di integrazione europeo. Le fratture che emergevano più per ragioni strategiche o utilitaristiche che per motivi ideologici. Se, da un lato, gli eventi della prima metà degli anni ’50 ispirarono – sia per paura, sia per autotutela – la ripresa del percorso di integrazione da parte degli Occidentali, dall’altro, benché i vertici del PCI argomentassero in termini ideologiche la propria opposizione alla firma dei Trattati di Roma, il loro scopo era quello di impedire il rafforzamento del blocco occidentale a discapito degli interessi di Mosca. Per quanto riguarda la trasformazione del Partito Socialista, non si può dubitare dalla ‘conversione intellettuale’ di un Nenni che iniziava ad accettare le istituzioni democratiche senza condizioni, ma l’avvicinamento dei Socialisti era fortemente incentivato dalla possibile partecipazione al governo.

Tornando invece nella dimensione comunitaria, vediamo anche come nella ratio del Trattato di Roma c’era il tentativo di giungere alla costruzione di un’Europa politica attraverso uno sviluppo armonioso delle attività all’interno della Comunità. I trattati di Roma, dunque, segnano uno spartiacque fondamentale che vede prevalere la dottrina funzionalista sul federalismo sognato da Spinelli.

D’altro lato, mancata sottoscrizione dei Trattati di Roma da parte del Regno Unito avrebbe reso possibile la creazione dell’European Free Trade Area nel 1960. Fondata da Austria, Danimarca, Norvegia, Portogallo, Regno Unito, Svezia e Svizzera, l’EFTA prevedeva la progressiva eliminazione dei dazi doganali per quanto riguarda i prodotti industriali senza incidere sui prodotti agricoli o di pesca. A differenza della CEE, essa non prevedeva un controllo comune sulle tariffe doganali ma ogni membro rimaneva libero di eseguire accordi commerciali e concordare delle tariffe doganali con degli Stati non membri.

Se, da un lato, l’EFTA ha permesso la collaborazione fra alleati del Patto Atlantico e Paesi neutrali come la Svezia, la Svizzera e l’Austria, dall’altro, essa ha incentivato la concorrenza fra i suoi sette Stati aderenti e i “sei” della CEE.  Non mancheranno però i punti di convergenza fra i due gruppi. In effetti, gli stessi stati neutrali manifestano la volontà di associarsi alla CEE. Ma oltre a queste dichiarazioni di intenti non si verificano degli ulteriori passaggi verso l’integrazione.

Anche il veto di De Gaulle all’adesione di Londra – che tratteremo a seguito – alla CEE ha contribuito a dilatare i possibili punti di convergenza tra l’EFTA e la CEE in chiave unitaria.

Nel frattempo, i progressi della CEE erano visti con buon occhio da Washington. Un segnale positivo viene dato dall’incontro tra Kennedy e Hallstein nel 1961 i quali, esprimendo soddisfazione per l’andamento della CEE, auspicano per essa una più stretta cooperazione con l’Africa e l’America Latina. Ma da Washington provenivano anche delle pressioni per quanto riguarda la liberalizzazione dei mercati proponendo il Trade Expansion Act, uno strumento predisposto a generare una politica commerciale più aperta. Ancora una volta, sarà Parigi a guardare con avversione la proposta. Come in tutta l’era De Gaulle, i sospetti verso l’alleanza Londra-Washington condizionava le scelte della Francia in ambito comunitario.

 

De Gaulle, una parentesi revisionista nel processo di integrazione.  

L’ascesa al potere di Charles De Gaulle rappresenta una cesura nel percorso di integrazione. Chiamato in causa per affrontare uno scenario che, tra l’anarchia interna e la questione algerina, era sfuggito dalle mani alla classe politica francese, il generale diede alla Quinta repubblica facendone approvare la costituzione tramite referendum popolare. Oltre alla questione algerina, le ambizioni di De Gaulle si sarebbero proiettate più in là ignorando intenzionalmente gli equilibri di Yalta nel tentativo di rivendicare una posizione autonoma nel quadro della politica internazionale.

Visto dall’Italia, il fenomeno De Gaulle rappresentava un pericolo per la stessa democrazia francese. La stessa classe politica non esitava a fare delle analogie rispetto a possibili derive nazionalistiche nella nostra Penisola. Per Togliatti, il movimento politico di De Gaulle rispecchiava una forma di fascismo alla francese mentre il PSI di Lelio Basso, pur non denominandolo ‘fascista’, lo considerava come un simbolo della reazione e, potenzialmente, l’anticamera di una deriva autoritario[1]. Era un dato di fatto che la recente esperienza fascista portasse i leader politici italiani a condannare ogni trasfigurazione del potere in un uomo forte. Anche l’ala sinistra DC guardava De Gaulle con sospetto. Né la vittoria al referendum del 1958 né gli sforzi provenienti da Palazzo Farnese furono in scongiurare lo sguardo di preoccupazione con cui Roma guardava l’evoluzione politica di Parigi.

Pur rimanendo all’interno del blocco occidentale, De Gaulle ne metteva in discussione i presupposti. Il generale voleva trasformare l’Europa in un terzo polo che, rivendicando una collocazione autonoma, fosse in grado di interloquire con l’Unione Sovietica. Contrastando ogni evoluzione della CEE, il generale non esitava a criticare l’egemonia statunitense ribadendo con orgoglio che “l’Europa ha scoperto l’America e non vicercersa”.

A tale riguardo, il generale francese predispose il Piano Fouchet che cercava di instaurare un Consiglio dei ministri, il quale avrebbe deliberato solo all’unanimità, una Commissione esecutiva, un Comitato di ministri della difesa e un’Assemblea parlamentare. Questo primo tentativo di De Gaulle sarebbe stato archiviato dato che gli altri cinque membri della CEE non erano disposti a sacrificare l’equilibrio raggiunto con i Trattati di Roma. Se fosse stato realizzato, il Piano Fouchet avrebbe ridato vita alla visione Confederale ma nutrire una frattura con Washington e Londra per inseguire i sogni di un ex-militare era un rischio che nessuno era disposto a correre.

In ogni caso, il generale sarebbe continuato sulla propria strada. La sua era un’Europa delle nazioni e, dunque, non federale ma neanche funzionalista.

Il 14 gennaio del 1963, De Gaulle dirà di no alla candidatura del Regno Unito alla CEE. Argomentando l’incompatibilità del Regno Unito con il progetto comune europeo, l’allora presidente francese descriveva Londra come un membro che non avrebbe mai accettato del tutto il percorso stabilito dai “sei”. Il generale sollevava anche il l’eventuale assorbimento della CEE da parte di Washington nel caso in cui l’adesione di Londra fosse avvenuta:

D’ailleurs cette Communauté s’accroissant de cette façon verrait se poser à elle tous les problèmes de ces relations économiques avec toutes sortes d’autres États et d’abord avec les États-Unis. Il est à prévoir que la cohésion de tous ses membres qui seraient très nombreux, très divers n’y résisterait pas longtemps. Et qu’en définitive il apparaîtrait une Communauté atlantique colossale sous dépendance et direction américaine, et qui aurait tôt fait d’absorber la Communauté de l’Europe. (…)[2]

Nel discorso è emerso quel desiderio di emancipazione che portò de Gaulle ad agire spesso in opposizione alle politiche di Washington. Di fronte ad esso, non basta la promessa di Kennedy di aumentare l’influenza degli europei in campo atomico, ma cercherà di dotarsi di una forza nucleare autonoma dal 1963. Tre anni dopo, la sua rivendicazione di una politica nazionale indipendente lo porterà ad annunciare a Johnson la cessazione dei comandi integrati con la NATO precisando di intervenire nel caso in cui uno degli alleati fosse aggredito.  Ne è risultata una situazione ambigua in cui Parigi rimaneva nel Patto atlantico ma rifiutava l’integrazione militare.

A preoccupare l’Occidente saranno anche le sue posizioni sul sistema monetario mondiale, sul conflitto indocinese, la difesa della posizione araba nel conflitto israelo-palestinese del 1967, il riconoscimento della Cina comunista e la richiesta di indipendenza del Québec. Si teme che la politica estera di De Gaulle condurrà Parigi a una deriva neutralista ma l’uscita di scena del generale nel 1969 renderà più sereni i rapporti di Parigi all’interno della CEE e del Patto Atlantico.

Con De Gaulle fuori dai giochi, la collaborazione all’interno delle diverse comunità europee diventerà più semplice, rinforzando il legame tra i paesi membri.

 

Estefano Soler

CIVITAS EUROPA - Divisione Relazioni Internazionali

 

Note:

[1] Per ulteriori approfondimenti sulla percezione della classe politica italiana di riguardo all’ascesa di De Gaulle, consiglio di leggere l’articolo Charles De Gaulle visto dall’Italia (1958-2012) reperibile nel seguente link: https://journals.openedition.org/cei/2892

[2] Per sapere di più si legga l’articolo De Gaulle dit «non!» pubblicato nel Luglio 2017. In esso si fa una ricostruzione dei frammenti più rilevanti del discorso dell’allora Presidente francese. https://www.monde-diplomatique.fr/mav/153/A/57533

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