Pombeni «Dossetti, pensiero inquieto in un tempo frammentato»
[caption id="attachment_3502" align="alignright" width="394"] Da sinistra: Giuseppe Dossetti, Aldo Moro e Giorgio La Pira[/caption]
«Uno spirito inquieto e tormentato, alla ricerca del Kairòs in ogni aspetto della vita pubblica. E quando ritiene questa via non più praticabile nella politica, egli la cerca nello studio». È la fotografia di Giuseppe Dossetti tratteggiata da Paolo Pombeni, professore emerito del dipartimento di Scienze politiche e sociali dell'Alma Mater Sudiorum - Università di Bologna, intervistato a margine della presentazione del libro "Giuseppe Dossetti - la politica come missione" (Luigi Giorgi, Carocci editore, 2023) tenutasi il 13 febbraio presso il Centro Francesco Luigi Ferrari di Modena.
Nato a Bolzano il 10 settembre 1948, Pombeni è autore di numerose pubblicazioni e fondatore della rivista "Ricerche di storia politica (Il Mulino, Bologna) ed è nell'Editorial board del Journal of Political Ideologies di Oxford; è altresì membro del Comitato scientifico della Fondazione per le Scienze religiose di Bologna e dal 2006 al 2008 è stato membro dell'Institut Universitaire de France
Dossetti ci insegna il coraggio di misurarsi con un tempo frammentato senza presumere, a priori, di averlo capito. Egli non è mai stato l'uomo delle certezze assolute, ma un'anima tormentata
Professor Pombeni, che eredità lascia la vita di Dossetti alla postmodernità, tempo in cui non mancano le guerre bensì le grandi narrazioni che tengano insieme la comunità?
Dossetti ci insegna il coraggio di misurarsi con il tempo frammentato senza presumere, a priori, di averlo capito. Egli non è mai stato l'uomo delle certezze assolute, ma un'anima tormentata. Ed è una grande lezione, perché nella grande trasformazione che stiamo vivendo l'ultima cosa da fare è offrire soluzioni facili ai problemi. È il problema etico della ricerca: nell'esperienza della Costituente, ma anche nel Concilio Vaticano II, Dossetti si rivela un uomo di ricerca: non ha ricette precostituite né accetta quelle imposta dai Gesuiti o da altri; è consapevole di essere in un crinale di transizione della storia e in un mondo difficile da capire; è Immaginario degli anni quaranta del Novecento.
Il "velo di ignoranza" di allora contro la presunzione dell'attuale Classe dirigente di sapere cos'è il bene per il resto del mondo. Lo vediamo nelle analisi che vengono fatte sulla guerra a Gaza, in Ucraina e altrove. Che cos'è che viene a mancare in termini di formazione e di profondità di pensiero?
Viene a mancare la disponibilità a indagare il mistero, se posso usare questa parola; a capire che non è possibile spiegare tutto o ridurre le cose a una dicotomia tra bianco e nero. Il mondo è complesso e va interpretato nella sua evoluzione. Si pensi al peso sulle spalle di una generazione chiamata a immaginare cosa sarebbe stato il post-fascismo. Oggi, a distanza di anni, sembra tutto così facile ma quando i padri costituenti cominciarono a pensare il domani non si sapeva come andasse a finire. C'era la necessità di costruire gli strumenti perché il sistema politico trovasse un suo equilibrio all'interno di un sistema internazionale così complesso.
Mancano, nella classe politica, la modestia e il desiderio di puntare sul dialogo e sulla conoscenza dell'altro a partire dalla diplomazia.
Passando agli anni Settanta, citerei l'esempio della "Strategia dell'Attenzione": allora si cercava di ricongiungere gli estremi, anche a un costo elevato. Poi, a livello di politica estera notiamo come l'Italia avesse un ruolo attivo tra i Paesi del Sud e quasi privilegiato in Medioriente grazie alla diplomazia fanfaniana e morotea. Oggi invece questo ruolo è occupato da Stati emergenti come Turchia e Qatar. Come mai?
Manca la formazione di una classe politica capace di leggere la storia. Tutti questi uomini - Dossetti, Moro, Fanfani - erano nati proprio in un momento di crisi in cui bisognava andare oltre sé stessi e fare uno sforzo per capire dove si andasse a finire. Non dimentichiamo quanto drammatici furono gli anni tra il '43 e il '47 e anche il dopo; le trasformazioni che ci sono state. Mancano, nella classe politica, la modestia e il desiderio di puntare sul dialogo e sulla conoscenza dell'altro a partire dalla diplomazia. Si pensa che tutto, anche i problemi più difficili, si risolva con parole di condanna o di adesione.
Potrebbe citare un esempio? Diciamo una cosa banale: come si fa a pensare che ciò che sta succedendo a Gaza sia un genocidio? Certamente non si tratta di una bella cosa: c'è una situazione in cui la sproporzione dell'uso della forza e la mancata attenzione nei confronti dei civili lascia conseguenze terribili. Se però non ci si prende dei termini si ottiene soltanto la divisione fra le sette e non si rende un servizio alle vittime.
Per invertire la rotta, non serve erigersi giudici della storia contemporanea ma di esserne gli umili costruttori
Sembra però ci sia una fuga dalla complessità. In che modo superare questo appiattimento? Cosa fare per rifuggire a questa dinamica? Occorre prendere contatto con la realtà: l'aver affrontato questo tempo in maniera così piatta ha portato solo dei grandi svantaggi. Il mondo sta sfuggendo di mano e nessuno sa dove andrà. Per invertire la rotta, non serve erigersi giudici della storia contemporanea ma di esserne umili costruttori. E ogni costruzione va fatta con pazienta, va messo un mattone dopo l'altro.
Nel saggio "La buona politica" (Il Mulino,2019), Lei parla parla della necessità do riconoscerci in una «comunità di destini»: a quasi cinque anni dalla pubblicazione, lo ritiene ancora possibile? È l'unica alternativa che abbiamo. La «comunità di destini», termine coniato da Max Weber, ha a che fare con principio la solidarietà, che è un principio costituzionale (Art. 2, ndr.). Se non accettiamo che sono le reti relazionali a tenere in piedi la comunità politica, se non ci si sente parte di una comunità di destini, si finisce per cadere in un individualismo delle singolarità. E la politica non si può far da soli e neppure la vita: c'è sempre bisogno dell'altro.
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