Majorana: uscire dal gioco per fare sul serio
"Ce lo immaginiamo come il Mattia Pascal di Pirandello: appoggia il suo cappello, il cappotto, con in tasca una lettera; sul parapetto di un ponte che scavalca il fiume; e invece di tuffarsi in acqua, si allontana come se nulla fosse”.
Seguire la cronaca politica di queste ultime settimane ci fa invidiare l’Ettore Majorana raccontato da Leonardo Sciascia. L’uomo della conoscenza che, proprio nel momento più alto della sua carriera, fa una scelta controcorrente: scompare! E decide di farlo a soli 32 anni, nel marzo 1938, poco prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale; e a seguito della lettera recapitata al professore Antonio Carrelli. L’ultima di una serie di missive di commiato nelle quali Majorana si apprestava a salutare l’unica dimensione di vita a noi conosciuta: quella temporale, come definita nel linguaggio cristiano (rimasto l’unico ad offrirci un’epistemologia sul dopo la morte). Ma dell’eventuale morte di Majorana non ci sono tracce (si faranno molteplici congetture sull’eventuale suicidio, sul suo rifugiarsi in un monastero in Calabria oppure sull’eventuale partenza in Sudamerica). Ed è qui che assistiamo alla nascita del mito: nell’assenza di una spiegazione razionale all’uscita di scena di uno scienziato che, già nel suo percorso di vita, si mostra staccato dalla tentazione di prestigio che, di tanto in tanto, il potere offre alla scienza. Alcune volte per castrarla, silenziarla o renderla uno strumento di propaganda; altre volte per piegarla a scopi distruttivi: come l’invenzione dell’Atomica, del cui nefasto utilizzo ricorreva, qualche giorno fa, il 77° anniversario. La scomparsa di Majorana di Leonardo Sciascia (Gli Adelphi, 1997. 12,50 euro) è un tentativo letterario di risignificare il misterioso evento per criticare l’asservimento della scienza al potere, facendo prevalere la morale umana sulla ragione strumentale che, di tanto in tanto, rischia di tradursi nell’autodistruzione della specie umana. L’autore ne fa una questione di libertà e schiavitù. Egli condanna coloro che “godevano di una oggettiva condizione di libertà” ma si comportarono “da schiavi”; ed elogia la libertà di chi, come Majorana, sceglie di non giocare più a un gioco che sa di essere truccato optando per l’uscita. Da cosa? dalle trame del Leviatano nell’era dei totalitarismi, dalla bramosia mascherata dietro la decenza delle istituzioni e dalle logiche di possesso agite dalla nostra parte più animale ed istintiva. Quella che traduce la scienza in tecnica da impiegare contro l’altro anziché per il bene comune. Per l’autore, Majorana fa una scelta congruente, di onestà intellettuale: ad aiutarlo sarà la sua disaffezione per le pubblicazioni e il suo modo particolare, anche solitario, di stare nelle dinamiche di gruppo. Come dichiarato da un suo studioso: “è come se egli abbia annichilito sé stesso, come se fosse la propria antiparticella, come se avesse applicato a sé stesso la sua teoria dell’antimateria (…) come se fosse diventato egli stesso una particella di Majorana”, della cui esistenza i fisici non hanno ancora certezza. Si tratterebbe di uno sconfinamento già tentato otto anni prima dallo scienziato in un articolo dal titolo Il valore delle leggi statistiche nella Fisica e nelle Scienze sociali scritto nel 1930. Cercando di esportare il rigore metodologico della fisica alle altre scienze, Majorana constaterà nel libero arbitrio la distinzione chiave tra gli individui e gli atomi. L'articolo acquisisce un maggior peso grazie alla sua pubblicazione postuma – nel 1942 – ed offre al lettore l’opportunità di spezzare il ciclo della storia, non sempre condannata a sfociare nell'annientamento dell'altro. La sua enfasi sul libero arbitrio ci sembra una prospettiva interessante in un tempo di tensioni incrociate, dove gli eventi che si susseguono dall’Ucraina alla Formosa, passando per la Striscia di Gaza, costituiscono una regressione nell’immaginario umano: il ritorno della guerra tra gli Stati, che annulla ogni riflessione emersa nel 2020, quando la pandemia ci fece constatare che eravamo vulnerabili e interdipendenti. Ora invece realizziamo di avere scarsa memoria, oppure di avere un intelletto capace di riproporre i problemi classici per depistarci da quelli che ci fanno più paura: come l’aumento delle povertà, la scarsità di materie prime per soddisfare un modello di sviluppo insostenibile, il riscaldamento globale - i cui effetti hanno raggiunto le metropoli del globo - e, addentrandoci nella nostra materia, il processo di costruzione della casa comune europea, spesso interrotto nel nome di una tradizionale, nonché suicida, cultura dell'emergenza. Nel frattempo, la classe politica italiana si inventa le crisi di governo, abdicando all’opportunità di modificare il contesto circostante, di sporcarsi le mani intorno a un progetto di Paese. Si è preferito giocare al vecchio rito di un gattopardo sbiadito, più simile alla versione felina di Frankenstein. Perché il libero arbitrio ci può condurre anche a fare come è sempre stato fatto; a scegliere la conservazione del potere in sé e per sé anziché la libertà di fare le cose in un modo diverso. Direi che la lezione di Majorana per il giovane contemporaneo sarebbe quella di non giocare a questo gioco, mantenendo lo sguardo posto sui problemi reali e partecipando – perché no – al dibattito come voce dissonante, come soggetto capace di mettere a terra il discorso pubblico e di esporre la nudità di una classe politica che ha rinunciato al contatto con la realtà. Si tratta di uscire da giochi che possono rivelarsi sterili - come lo è, ad oggi, il discorso pubblico interno -, restando ancorati a una realtà che preoccupa. Ma per fare tutto questo serve la disaffezione dalla corsa al potere e il coraggio chi non ha timore di scomparire, di non far carriera: non sempre volontariamente - come fece Majorana - ma anche venendo ostracizzati: come la generazione odierna.
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