L’ordine mondiale sotto scossa
Le placche tettoniche della politica internazionale si muovono come non mai; gli effetti sono subiti da porzioni di territorio sempre più ampie e coinvolgono un numero di attori sempre più elevato. Quale sarà il destino dell'ordine mondiale? È possibile un mondo dopo l'occidente?
[caption id="attachment_3454" align="aligncenter" width="437"] Palestinians walk through the rubble of buildings destroyed by Israeli airstrikes in Gaza City on Tuesday, Oct. 10, 2023. (AP Photo/Hassan Eslaiah)[/caption]
Di un terremoto non preoccupa soltanto l’epicentro quanto il raggio d’azione, che può raggiungere chilometri a seconda della sua magnitudo. Alla scossa principale ne seguono altre di assestamento o repliche che possono causare gravi danni, sebbene di minor intensità.
I modenesi ricorderanno il terremoto del 20 maggio 2012, che colpì anche Ferrara, Mantova, Reggio Emilia, Parma, Bologna e Rovigo; altre scosse vennero avvertite in Svizzera, Slovenia, Croazia, poi nel sud della Francia e della Germania. Numerose anche le repliche che il 20 e 29 maggio si susseguirono causando tre decine di morti, 390 feriti e danni economici per 11,5 miliardi di euro. Altri esempi molto più eclatanti hanno riguardato la Turchia e il Marocco nel 2023, rispettivamente con 55mila e 2.901 vittime.
Scosse, repliche, vittime e danni strutturali: possono bastare questi quattro elementi per sovrapporre l’immagine del terremoto a quella del mondo nei primi vent’anni del XXI secolo. Citando un esempio recente: Gaza potrebbe essere l’epicentro di un terremoto di violenza che si estende in Medioriente e non solo, coinvolgendo il Libano meridionale, l’Iran, l’Iraq, la Siria, lo Yemen e il Mar Rosso.
Da Gaza al Mar Rosso: gli Usa nel conflitto e il commercio estero in attrito
Recentemente, lo scorso 3 febbraio, un raid degli Stati Uniti ha colpito 85 obiettivi in diverse località irachene e siriane, includendo basi militari, centri di intelligence e installazioni usate dalla Guardia rivoluzionaria iraniana e da milizie affiliate a Teheran, tra cui Hezbollah e i ribelli Houthi. Gesto di rappresaglia compiuto in risposta all’attacco da drone, che ha ucciso tre soldati statunitensi in Giordania, al confine con la Siria.
«La nostra risposta inizia oggi – ha commentato il presidente statunitense, Joe Biden, poche ore dopo l’attacco –. Essa continuerà nei tempi e nei luoghi da noi scelti»[1].
Così, paradossalmente, gli Stati Uniti assumono un ruolo attivo nel conflitto mentre ne esigono il cessate il fuoco, al punto che Washington e Tel-Aviv non hanno nascosto le loro divergenze. L’ultima puntata, il retroscena rivelato dalla testata Politico secondo cui Biden avrebbe definito Bibi Nethanyau un «Bad fucking guy», affermazione poi smentita da Andrew Bates, portavoce della Casa Bianca. Imprudenza commessa in un tempo delicato, quello delle trattative di Parigi, che hanno coinvolto William Burns, capo della Cia, David Barnea, capo del Mossad, Ronen Bar, capo del Shin Bet, Abbal Kamel, per i servizi d’intelligence egiziani, e Mohammed Al-Thani, primo ministro del Qatar. Paese questo che ha assunto il ruolo di mediazione del conflitto partendo da una comunicazione assertiva, cioè priva di elementi moralistici che rischiano di inceppare il dialogo tra parti che non nutrono alcuna confidenza reciproca[2].
Il potenziale accordo, al momento congelato da Hamas e al momento respinto da Nethanyau, includerebbe il rilascio di detenuti palestinesi reclusi per aver ucciso dei cittadini israeliani e il ritiro dell’Israelian defence forces (Idf) da specifiche aree di Gaza. Ad Hamas invece sarebbe richiesto il cessate il fuoco e il rilascio di centinaia di ostaggi israeliani. A entrambe le parti sarebbe richiesta una sospensione delle ostilità di almeno quattro mesi. L'eventuale tregua darebbe respiro al commercio internazionale, ora in difficoltà per le controversie che si sono verificate nel Mar Rosso a seguito degli attacchi Houthi alle navi mercantili che hanno avuto effetti immediati tra cui l’aumento del 146% dei costi di trasporto per ogni singolo container (Freightos Baltic Index) e danni per almeno 626 milioni di euro per i beni importati dalla Cina all’Europa e di 230 milioni di euro per i beni importati dal vecchio continente al Paese asiatico. Parallelamente è aumentato anche il prezzo del greggio, passando da 72,2 a 78,2 euro. Il motivo va rintracciato nel fatto che la rotta del mar rosso comprende il 12% del trasporto di petrolio e dell’8% del gas naturale liquefatto.
West Bank: la ferita della Settler violence
Scosse più lievi, ma non meno importanti, si verificano nel frattempo in West Bank, con l’incremento della cosiddetta Settler violence praticata dai coloni israeliani nei confronti della popolazione araba-palestinese. Si tratta di una guerriglia a bassa intensità, basata su forme di intimidazione che vanno dall’espulsione all’omicidio. Episodi diffusi che diventano possibili laddove a mancare è il princìpio di accountability, come commentava un operatore italiano che lavora a Betlemme: «È il problema principale in Terrasanta, dove la violenza unilaterale di fazioni estremiste ai danni dei palestinesi spesso non riscontra alcuna risposta da parte delle autorità». «Contesto – commenta la nostra fonte – che alla lunga legittima la violenza come mezzo di risoluzione delle controversie. Nel 2023, i casi di Settler violence sono aumentati, con 260 palestinesi uccisi dall’inizio del conflitto». Lo stesso Joe Biden, nuovamente chiamato in causa, ha varato delle sanzioni contro i coloni israeliani autori di violenze mediante l’executive order emanato giovedì 1° febbraio dalla Casa bianca.
Tutti quei conflitti: da Kiev a Caracas, passando per il Sahel
Questo elenco potrebbe proseguire chiamando in causa anche Kiev, che proprio per causa della guerra in Medioriente sembra aver perso rilevanza nell’opinione pubblica mondiale. A tal proposito, Valerij Zalužnyj denunciava l’innescarsi di diversi focolai provocati da Mosca per stordire l'Occidente e i suoi alleati. Ipotesi non così disparata se si pensa alla catena di colpi di Stato nel Sahel – Burkina Faso, Niger, Mali – o, in minor grado, al risveglio di Nicolas Maduro, che ha riacceso, anche se per poco, una disputa territoriale con la Guyana Esequiba, regione ricca di risorse minerali e persa da Caracas durante l’arbitraggio internazionale del 1899 a Parigi.
Tensioni dissonanti di un'unica crisi globale
Le placche tettoniche della politica mondiale si muovono come non mai e le scosse raggiungono porzioni di territorio sempre più ampie coinvolgendo un numero di attori sempre più elevato. Pare inoltre che la struttura dell’Ordine liberale non regga più fra i veti incrociati al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, l’impotenza dell’Unione europea e il venir meno del ruolo guida degli Stati Uniti d’America. Tuttavia, un tale scenario non comporta l’ascesa diretta di altre potenze egemoni al pari degli Stati Uniti, baricentro unico del Novecento – con buona pace dell’Urss –: nessuno, neppure la Cina, sembra in grado di garantire l’insieme di condizioni – di tipo narrativo, culturale, militare e finanziario – che hanno reso Washington la capitale di un impero. Allo stesso tempo, con buona pace di alcuni analisti, non c’è nessuna regia comune contro l’Occidente a cura dei suoi antagonisti. Piuttosto, si notano delle scosse, dei movimenti tellurici – talvolta dissonanti – che compongono un unico terremoto.
«Cujus regio, ejus religio»: tutti e nessuno dopo l'impero
Forse, dopo l’imperialismo statunitense, il mondo preparerà sé stesso a un ordine diverso, più simile a quello siglato a Vestfalia dopo il 1648, con attori regionali che assumono l’amministrazione di alcuni spazi lasciati sguarniti dall’egemone in ritirata. Altrimenti non si capirebbe la ragione per cui uno Stato autoritario come il Qatar sia la cerniera tra Israele e Hamas, né come mai la Cina abbia fatto dialogare potenze antagoniste come l’Arabia Saudita e l’Iran. Nuovi mediatori, punti di riferimento e guide regionali sorgono dopo che l’Occidente è stato relativizzato. Ne parlava Michele Marchi, nel 2019 a Bologna, in Aula Ruffilli di Strada maggiore 45, quando – a introduzione del programma di Storia internazionale di quell'anno– spiegò che all’età di un impero con forte narrazione centrale e scarso potere reale, si avvicenda un’epoca senza narrazioni ma con un potere reale più tangibile, più prossimo. Il professore parlava certamente della storia moderna, ma la sequenza disegnata - dall'universalità al cujus regio ejus religio - apparì a sua volta premonitoria.
Estefano J. Soler Tamburrini
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