La realtà del rapporto tra Israele e l'Occidente
La responsabilità storica dell’Occidente nel massacro dei palestinesi non può e non deve più essere spazzata sotto il tappeto. Ma, dopo più di settant’anni, è difficile cambiare traiettoria. Questo, da un lato, è sintomo della bancarotta morale e giuridica del diritto internazionale. Dall’altro, dimostra impreparazione di fronte alla reale possibilità di un’escalation incontrollata del conflitto.
C’è una foto, sull’edizione di Internazionale di questa settimana. Il fotografo è Eyad Baba, uno dei reporter che ancora accetta il rischio generato dall’indiscriminata campagna dell’IDF dentro la striscia di Gaza.
La foto ritrae il minareto di una moschea a Nuseirat, Palestina. Le bombe israeliane lo hanno ripiegato sugli edifici vicini, è gigantesco nella sua prossimità al suolo. Un ragazzino a naso all’aria osserva il minareto, alcuni residenti passano sotto, noncuranti del pericolo di crollo. La strada, dopotutto, si può ancora usare: semplicemente, non porta più alla moschea.
Queste foto - con relativo conteggio vittime - sono presenti in ogni angolo della nostra infosfera digitale onnipervasiva. Non serve nemmeno comperare un giornale od una rivista. Basta lo schermo di uno smartphone.
La questione palestinese è tanto drammaticamente evidente quando colpevolmente inascoltata. Quando certe notizie ci cadono sotto agli occhi, le reazioni sono quelle che si hanno davanti a catastrofi naturali. Ma in Palestina, non sono i terremoti a squarciare la terra e a ridurre in polvere gli edifici; non sono gli tsunami a livellare la costa di Gaza; non sono incendi boschivi quelli che illuminano a giorno le notti della Striscia.
Il ciclo di violenza si alimenta di comportamenti umani e finisce per riverberarsi sugli inermi. La sistematica violazione del diritto internazionale da parte dello Stato di Israele - complice il supporto, quasi ininterrotto per decenni, del mondo occidentale - non è più una novità. E’ classificata come evento naturale con le sue connessioni causa-effetto e una certa dose di victim blaming.
Eppure, le prove fotografiche dell’umanità di ciò che sta avvenendo a Gaza, in Cisgiordania e in tutta la Palestina sono lì, sotto i nostri occhi. Sotto gli occhi di chi guida le nostre comunità.
Viene da chiedersi: com’è possibile? Com’è possibile che si accetti il tentativo di far passare un’agenzia ONU - l’UNRWA - per organizzazione terroristica? Com’è possibile che ad uno stato sia concessa l’attenuante onnicomprensiva della “sospetta presenza di terroristi” nel radere al suolo scuole, case, luoghi di culto, ospedali e campi profughi? Com’è possibile che il leader di un governo confessionale, estremista, promotore attivo della violazione delle risoluzioni ONU, venga accolto con tutti gli onori nel cuore della democrazia statunitense? Com’è possibile che l’evento sportivo più importante del pianeta veda il paese ospitante non riconoscere la Palestina, ma lasciare sfilare la delegazione Israeliana composta da tanti membri dell’IDF, alcuni dei quali in servizio attivo?
La realtà del rapporto tra Israele e l’Occidente si mostra palese ancora una volta: il legame politico, economico, storico, ha radici profonde e oramai inestirpabili.
Non cede, il rapporto, persino davanti alla degenerazione della società israeliana, piegata alla logica della guerra, in cui soldati e soldatesse postano contenuti social nelle case occupate, disumanizzando quanto rimane delle vite spezzate dei palestinesi in fuga.
Nemmeno l’ennesima escalation, che gioca pericolosamente con gli equilibri della regione, e piega ulteriormente la struttura indebolita del diritto internazionale, ha qualche effetto visibile sul legame con Israele.
Ma è finito il tempo in cui Israele poteva vendere una certa immagine di sé. Lo skyline di Tel Aviv, la gente che gioca a beach volley mentre in cielo volano i missili, l’isola di civiltà nel mare della barbarie. Tutta quella narrazione non regge più.
Tutto quello che ci siamo ostinati a non vedere oggi preme per emergere, grazie ad un sistema di informazione potenzialmente senza intermediari né filtri. E’ difficile rivedersi in Israele, quando si è esposti alle conseguenze tremende della sua campagna a Gaza.
Ma è altrettanto difficile porsi le domande giuste, quelle che potrebbero generare un cambiamento. L’inversione di tendenza presupporrebbe una presa di coscienza, un’ammissione di colpevolezza, politicamente insostenibile.
Significherebbe riconoscere il terribile trattamento riservato ai palestinesi dalla nostra indifferenza, quando non da uno schema di pensiero e prassi discriminatorio nei confronti delle popolazioni arabe.
Ma anche supponendo si venisse a creare la volontà politica di sovvertire quando si è sempre fatto in terra di Palestina, il sospetto è che la nave sia oramai ingovernabile, diretta verso un’ulteriore espansione del conflitto. Perché Israele non ascolta più nessuno, nemmeno i suoi alleati più stretti, quando le parole che le sono rivolte non sono di plauso o sostegno incondizionato.
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