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Due entità, quale futuro?

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Due entità, un’origine comune. Entrambe legate al ricordo, non molto lontano, di un’unica appartenenza. Paradossalmente, è quest’ultima a generare dei contrasti, dissidi, conflitti: quasi a parlare di legami di parentela tra due sorelle. La presunta armonia proiettata da ciò che appare agli occhi esterni come uno spazio unico, monolitico e privo di irregolarità è compensata dalle logiche di dominanza e subalternità che si configurano all’interno delle mura domestiche.

Mi piacerebbe proporre tre scenari in cui si è configurata questa logica. Due storici e uno contemporaneo. Come quando la trasformazione della struttura economica dell’Unione Sovietica condusse alla carestia alimentare che ferì il territorio ucraino dal 1932 al 1933, lasciando un saldo di 7 milioni di vittime. Deportazioni nei Gulag, confiscazioni del grano, riduzione alla fame e decimazione della popolazione civile fu il prezzo che la sorella minore dovette pagare per supportare i sogni della prima. Perché il rapporto tra centro e periferia è sempre un rapporto fra esseri umani, dove le ambizioni di alcuni possono condurre all’emarginazione degli altri. Conviene ricordare in questa sede, che, all’epoca, il regime sovietico fece innumerevoli sforzi per negare la Carestia o giustificare quest’ultima come un’imminente catastrofe naturale[1]. Negazione, questa, che lascia un primo conflitto irrisolto, una ferita aperta. Il secondo scenario è a Chernobyl, dove tornano ad esserci delle esplosioni. Questa volta non più per la detonazione radioattiva di una Centrale nucleare, ma per l’avanzare dell’invasione russa nel territorio ucraino. Oppure per il tentativo moscovita di recuperare lo spazio politico perduto in era post-sovietica. Gli attacchi contro Chernobyl ci riportano inevitabilmente al ricordo del 26 aprile 1986, quando, nel cuore della notte (1,23), il reattore n. 4 della centrale nucleare dell’omonima città esplose. L’effetto di questo di quest’incidente fu deleterio, sia nel breve che nel lungo periodo. Venne ferita la memoria di un’intera città. Ma ancora una volta, il regime sovietico era più impegnato a nascondere il problema che a cercare di risolverlo. In un terzo scenario, la sorella più grande ricorda a quella più ribelle un momento in cui quest’ultima l’ha espulsa dalla propria casa, dal proprio territorio. Mi riferisco a quanto accaduto in occasione delle proteste pro-europee dell'Euromaidan, le quali sono scoppiate nella notte tra il 21 e 22 novembre 2013 per la decisione del governo ucraino di sospendere l'accordo di libero scambio tra l'Ucraina e l'Unione europea (DCFTA - Deep and Comprehensive Free Trade Area). Tra le ragioni dei manifestanti vi erano anche la corruzione dilagante nell'Amministrazione centrale e la violenta repressione nei confronti dei manifestanti. L'insieme di questi fattori hanno condotto alla cd. "Rivoluzione Ucraina" con la conseguente rimozione del Presidente Janukovic. Poco dopo, il governo ad interim ha varato e una serie di provvedimenti che hanno messo crisi i rapporti con Mosca: il ripristino della costituzione del 2004, l'imposizione della lingua ucraina come unica lingua ufficiale, lo scioglimento dell'unità speciale di polizia 'Berkut' e altre variazioni nell'assetto politico di Kiev hanno suscitato la reazione di manifestanti pro-russi nella zona orientale del Paese e, infine, l'intervento militare russo in Ucraina. Tra gli esiti di questi interventi vi è annessione della Crimea, l’occupazione della parte peninsulare dell'Oblast' di Cherson oltre al controllo, da parte degli insorti pro-russi, dell'area di confine tra Novazovsk's e Luhans. Il 7% del territorio ucraino è sotto occupazione militare russa. Ma su quanto accaduto nel 2014 ci sono versioni contrastanti, dove ognuna delle parti ritiene di essere stata lesa dall’altra. Tale scenario lascia spazio a un conflitto dove prevale l’emotività al di sopra della strategia, dove i desideri di rivalsa, i rigurgiti e l’orgoglio guidano l’agire delle parti coinvolte. Si configurano così una serie di implicazioni che ci conducono oltre la concezione classica delle relazioni internazionali, facendo spazio alla dimensione più umana, istintiva e crudele della politica.

Tra la Russia e l’Ucraina c’è un’asimmetria incompleta, una differenza non totale, che impedisce il determinarsi di un esito in questa storia. Riemergono poi tutte le questioni irrisolte. Come quando nella disputa fra due sorelle, la più fragile si sente dire più volte “non è successo niente” oppure “Non è vero. Stai esagerando”. Tale atteggiamento rende più agguerrita la parte che ha subito l’aggressione: in mancanza di uno spazio in cui far valere la propria voce, è necessario rivendicare la propria posizione. L’esperienza di ingiustizia percepita sfilaccia prima o poi i legami di fiducia e di cooperazione tra le due realtà, che diventeranno antitetiche e sempre più lontane. Nell’indivisibilità dello spazio, quindi del problema, il tutto può risolversi nella dialettica servo-padrone, dove un componente può permettersi di prevalere sull’altro. Altre volte non prevale nessuna: entrambe provano un senso di amarezza che porta costantemente al ricordo delle situazioni irrisolte, rimaste in sospeso. Tale sospensione genera lo stesso effetto del lievito, ingrediente quasi impercettibile che però ha l’effetto di far fermentare tutta la massa. Si può dire lo stesso per i conflitti irrisolti: essi rischiano di fermentare, di veder incrementare le proprie dimensioni. Questo processo di fermentazione può proseguire, anche e soprattutto quando cessa la ratio dello stare insieme. La morte, ad esempio, dell’entità materna che faceva da collante per entrambi. Come successe in quel 1991, quando il crollo dell’Unione Sovietica sancì la fine di un’epoca. Fu la battuta d’arresto di un “modo di stare insieme”. Potrebbe essere la storia di due sorelle, come illustrato da Pascal Rambert nella famosa opera Soeurs, dove il conflitto irrisolto è l’unico punto di contatto per due donne assenti che, a distanza di anni, si ritrovano per rinfacciarsi l’un l’altra quelle versioni discordanti della stessa storia. A unirle è il conflitto, l’amore incompreso che si confonde con l’odio, e viceversa. Ad un tratto; mentre le sorelle si contendono la ragione, salta fuori l’aneddoto di un amore perduto in terre straniere. E poi scappa la frase “se non fosse per la geopolitica”: l’unico ragionamento in cui entrambe si trovano d’accordo. La geopolitica intesa come quella scienza bellicista che studia lo spazio politico mondiale, calcolando minacce e opportunità secondo una logica di potenza. La geopolitica, che mentre prova a distaccarsi dal comportamento umano, può trasformare l’Ucraina e la Russia in qualcosa di simile a Nilou e Narmé, le sorelle del romanzo di Pascal.

Due entità, un’origine comune. Quella scomoda sensazione di continua ingiustizia per un’appartenenza comune ma non condivisa, e di cui si hanno narrazioni diverse. Come se l’esperienza vissuta nel seno della famiglia riconducesse a ricordi diversi per entrambe, facendo rivivere emozioni e sentimenti opposti, narrazioni e versioni discordanti della stessa storia. Quell’indiscutibile somiglianza che rende più amara contrapposizione. La dialettica hegeliana al contrario: in questa storia, dal 1991 la sintesi è implosa su sé stessa spaccandosi tra tesi e antitesi. Quasi a dimostrare che la storia non è finita, ma è in continuum spaziosemantico. Gli eventi passati, e quelli in corso, non sono decifrabili in una logica di compartimenti stagni. La storia contemporanea è una singola trama: le tappe non si chiudono mai del tutto, ma riaffiorano laddove il presente ricorda il passato, e il passato condiziona il futuro. Come quei vissuti del presente che ricordano i traumi dell’infanzia e dell’adolescenza. Come Nilou e Narmé, che hanno saputo trasformare ogni loro avvicinamento in uno scontro letale. Ma la pretesa di annientare l’altro, la sua negazione, si traduce nella sua legittimazione nello spazio. Mai l’Ucraina era stata così importante ai nostri occhi. E quando mai gli ucraini erano stati così uniti? Può mai rivivere un soggetto, la Nato, a cui poco fa era stata diagnosticata morte cerebrale? Perché, anche se è vero che la guerra non va paragonata con nessun altro fenomeno umano, in questo caso essa non è altro che l’interazione forzata con proprio alter ego, la relazione conflittuale con il fantasma che richiama alla propria identità, e che, a forza di invocarlo può anche materializzarsi, passando da subalterno a sovrano. Oggi, quando la furia della sorella più grande si riversa su quella più fragile, il sistema sociale di riferimento dimostra di non avere un quadro giuridico tale per cui l’uso della forza non sia più considerato uno strumento per la risoluzione dei conflitti. Esso ricorre dunque a meccanismi di pressione come le sanzioni economiche, che possono riequilibrare la bilancia in favore di nessuno.

Qui il problema per gli attori coinvolti: può esservi il rischio di logoramento. Questo al di là della durata del conflitto. Questo perché il tutto sta avvenendo su un terreno molto fragile, quello di un’unica repubblica fondata sulla fragilità. Una casa comune, che non è più l’URSS ma la Terra stessa. Ce lo ricorda la deterrenza nucleare, ma anche altri fenomeni come la pandemia e gli eventi climatici. Un dato di fatto che va al di là delle mire espansionistiche, dei sogni di gloria e delle ambizioni egemoniche di chi ha voluto la guerra. Cosa ci si porta a casa?Al momento, l’esito è questo: 3.500 morti, oltre 368mila rifugiati e l’interruzione del flusso di persone, merci, servizi e capitali che generava un terreno comune fra Est-Ovest. Si torna così indietro di quarantasette anni, buttando via gli accordi di cooperazione, commercio, sicurezza e tutto quanto coltivato nell’Atto finale di Helsinki del 1975. Tutto per inseguire un sogno di superiorità che va oltre la dinamica internazionale tocca l’irrazionale. L’orgoglio di Putin che innesca l’orgoglio degli ucraini e fa emergere tutto il non detto di questi anni. E questo avviene, ripetiamolo, in una repubblica fondata sulla fragilità; che solo qualche settimana fa parlava della pandemia e delle sue ripercussioni sociali, economiche, politiche, economiche. Nulla di meglio di una guerra per tornare indietro, come prima. Una guerra che, come tutte, si fa per consacrarsi egemoni su qualcosa e su qualcuno. E poi? Cosa verrà dopo questa escalation di violenza? Chi gestirà i rifugiati? Chi ricostruirà le case, le città? Cosa ne sarà dell’Ucraina, dell’Europa, della Russia stessa? Nel frattempo, Nilou e Narmé continuano a urlarsi in faccia, ignorando che la loro casa, l’unica possibile, sta crollando.

E quando questo accadrà, cosa se ne faranno dei pochi metri di terra difesi e/o conquistati? Alla fine del gioco, queste due entità hanno anche un futuro in comune.

 

Estefano Soler Tamburrini

CIVITAS EUROPA - DIVISIONE RELAZIONI INTERNAZIONLI

 

 

 

 

Note:

[1] Lo storico ucraino Stanislav Kul'čyc'kyj dichiarò che il governo sovietico gli ordinò di falsificare le sue scoperte e di descrivere la carestia come un inevitabile disastro naturale, per assolvere il Partito Comunista e garantire l'eredità di Stalin. Per sapere di più, ved. Clifford Levy, A New View of a Famine That Killed Millions, in New York Times, 15 marzo 2009 (archiviato dall'url originale il 20 marzo 2017);  Century of Genocide: Critical Essays and Eyewitness Accounts, p. 93, ISBN 978-0-415-94429-8; Editorial, Famine denial (PDF), in The Ukrainian Weekly, vol. 70, n. 28, 14 luglio 2002, p. 6. URL consultato il 22 luglio 2012 (archiviato dall'url originale il 3 dicembre 2013).

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