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Corona Virus: senza un nuovo slancio ideologico, l’Europa rischia di non farcela

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Covid-19: uno spartiacque della storia?

La pandemia in corso potrebbe essere uno spartiacque decisivo per capire quale sarà il destino del progetto europeo. In altri tempi si sarebbe detto che in questi giorni stiamo vivendo un’accelerazione della storia. In questo caso, dovuta non al libero arbitrio dell’uomo bensì all’intervento inarrestabile di un microorganismo che si è rivelato una forza della natura. Il virus ha costretto i governi a cambiare completamente priorità e oggi tutte le riunioni nelle stanze dei bottoni hanno un unico gravoso obiettivo: salvare la cittadinanza dal baratro prima sanitario, poi economico.

L’Europa si trova a dover affrontare una crisi dalle dimensioni epocali, che non trova paragoni attendibili se non nella terribile influenza spagnola risalente un secolo addietro. Inutile dire che il mondo di oggi, completamente trasformato, si presenta di fronte all’offensiva pandemica con punti di forza e debolezza del tutto diversi.

L’ideale europeo, già messo a dura prova dalle conseguenze di lungo periodo della crisi finanziaria del 2008 e dalla narrazione sovranista, oggi si trova davanti ad un bivio esiziale. Potrebbe uscirne fortemente ridimensionato, persino morente, oppure addirittura rafforzato. Il Covid-19, in effetti, sembra aver fatto riaffiorare, come nei laghi carsici, una solidarietà insperata e finanche inconcepibile fino a poco tempo fa.

Non sono mancati alcuni gravi errori comunicativi nelle convulse fasi iniziali della crisi, quando la Presidente della BCE, Christine Lagarde, ha fatto sapere che “we are not here to close the spreads”, innescando la caduta delle borse nei paesi più indebitati. O quando la Presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, è parsa escludere anche solo la possibilità di prendere in considerazione strumenti innovativi sul modello degli Euro Bonds ("the word corona bond is really just a slogan").

Tuttavia, in breve tempo i vertici dell’Unione sembrano essersi ravveduti e sono arrivate le prime proposte di segno opposto. Prima Francoforte ha lanciato un nuovo piano di compravendita dei titoli di stato per 750 miliardi di euro, poi Bruxelles ha reso pubblico SURE, un meccanismo di garanzia da 100 miliardi a cui i governi potranno ricorrere per erogare le casse integrazioni e salvare l’occupazione. Ma tutto ciò sarà potrà bastare?

Per capire qual è la vera posta in gioco, occorre ricostruire brevemente qual è lo stato di salute dell’Unione. Chiunque si fosse fermato a riflettere sulla parabola del progetto europeo alla vigilia dell’invasione virale, si sarebbe rapidamente reso conto che la situazione era già complessa. Negli ultimi venti anni, l’integrazione si è prima dovuta fermare nel 2005 davanti alla bocciatura del disegno di Costituzione Europea da parte dei cittadini francesi e olandesi; poi ha vissuto la morsa dello shock finanziario del 2008, con annessa la crisi dei debiti sovrani; infine l’ondata populista e sovranista, che ha sommerso il continente facendo leva sul dissesto socioeconomico e sulla crisi identitaria.

Di fronte alla rinascita dei nazionalismi in questa nuova veste, i fautori dell’integrazione parevano inermi. La comunicazione delle formazioni politiche populiste, anche quando la loro consistenza numerica era ancora contenuta, sferrava colpi sempre più incisivi e metteva gli europeisti con le spalle al muro, obbligandoli di volta in volta a giustificare le scelte di Bruxelles e a confutare l’immagine di un’Unione prona agli interessi dei poteri forti e insensibile nei confronti delle esigenze dei più fragili. A poco è servito spiegare che stabilizzare le economie e intervenire laddove i singoli Stati non potevano essere incisivi, era anche e soprattutto negli interessi delle fasce sociali meno fortunate.

Il processo di integrazione europea si trovava così in un limbo nel quale non avrebbe potuto sostare a lungo. Per rendere le loro azioni più efficaci, le istituzioni domiciliate a Bruxelles avrebbe dovuto ampliare il loro potere d’intervento ma i governi degli Stati membri non erano disposti ad abbandonare nuove quote di sovranità. Come sarebbe stato possibile continuare sul cammino dell’integrazione, se ad essere messe in discussione erano le tappe già raggiunte?

Quando il sovranismo iniziava a prendere piede e a raccogliere consenso, è scattato un meccanismo difensivo che ha portato gli europeisti di ogni estrazione, a prescindere dalla loro professione o ruolo pubblico, ad assumere un atteggiamento conservativo, volto alla difesa dell’esistente. Pochi si sono posti il problema di un rilancio effettivo dell’ideale europeo, un obiettivo ritenuto implicitamente fuori portata. Piuttosto che remare contro il vento della storia, salvare il salvabile pareva essere la scelta più realistica. Gli stessi rappresentanti europei non sono stati minimamente capaci di contrastare efficacemente la retorica nazionalista, non mancando anzi di farsi cogliere in fallo per errori comunicativi e preclusioni pregiudiziali rispetto alla possibilità di superare i limiti dell’Unione.

La pandemia virale, mediante il ricatto della paura, ha sortito un effetto insperato: ha fatto tornare l’Europa protagonista del suo destino. Non ci è dato sapere, al momento, se essa ne sarà anche padrona. Sicuramente la macchina europea, temendo che la crisi sanitaria producesse una catastrofe economica e sociale, dopo alcuni tentennamenti iniziali si è rimessa in moto. L’ipotesi della condivisione del debito, caldeggiata dai paesi finanziariamente più fragili, è stata per ora scartata ma un nuovo spirito solidale sta riaffiorando.

 

Un rilancio necessario

L’accelerazione provocata dal virus rischia di non essere sufficiente per ridare forza e sostanza all’immaginario europeo.

Questi ultimi sviluppi, tuttavia, indicano a mio avviso quale potrebbe essere una possibile strategia di riavvio del progetto europeo.

L’onda lunga della crisi finanziaria globale del 2008 e oggi quella dell’offensiva virale non fanno che esacerbare il bisogno di protezione sociale di una cittadinanza indifesa di fronte alle complesse e apparentemente incontrollabili dinamiche della globalizzazione. Da questo senso di insicurezza e dal tentativo di dargli risposta, dovrebbe nascere un nuovo “manifesto sovranista” dell’Unione Europea, la nuova linfa ideologica di cui necessita il processo di integrazione. Se i partiti euroscettici hanno intercettato timori esigenze e aspettative reali, l’unico modo per disinnescare la loro narrazione è provare a superarla con slancio, senza arroccarsi su posizioni difensive o abbandonarsi a logiche conservative.

L’ingegno e le competenze degli europeisti di oggi e di domani dovrebbero essere convogliati in un gigantesco sforzo comunicativo per diffondere nel Vecchio Continente due semplici messaggi: l’Europa, per resistere in un mondo sempre più instabile e insidioso, ha bisogno di solidarietà al suo interno e protezione verso l’esterno. Questi potrebbero essere i due pilastri di un nuovo manifesto politico che, idealmente, riprenda il disegno visionario di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, racchiuso nel sempiterno Manifesto di Ventotene, e lo collochi in una nuova, altrettanto sfidante, fase storica.

Un’Europa sovranista, in un’epoca segnata dall’incertezza e da un diffuso senso di vulnerabilità, riuscirebbe forse a risintonizzarsi sulla lunghezza d’onda delle inquietudini che affliggono i suoi cittadini.

Nel nuovo millennio, le logiche ineffabili della globalizzazione hanno sottratto alle comunità nazionali l’illusione di poter disporre del proprio destino, specie economico, per mezzo delle tradizionali prerogative statali. Su questo senso di spaesamento, del resto, è stata edificata l’impalcatura retorica sovranista. I governi, incapaci di gestire le dinamiche globali dell’economia e la fluidità dei nuovi paradigmi identitari, sono diventati facili bersagli della comunicazione populista, incisiva e spregiudicata.

Fino ad oggi, tuttavia, non si è fatta strada la consapevolezza che un grande spazio d’azione si era aperto per una nuova narrazione europea. Ogni qualvolta la sovranità dei singoli Paesi falliva, l’Europa avrebbe dovuto far sentire la sua voce e dispiegare la sua azione. Sul piano reale delle soluzioni politiche e, parallelamente, su quello simbolico di cui si alimenta il discorso pubblico, ogni fallimento dei singoli avrebbe potuto essere trasformato in una vittoria dell’Unione.

Ad ogni crisi, invece, l’autorevolezza di Bruxelles sembrava scemare e, come in un gioco di vasi comunicanti, si affermava quella costruita sulla sua negazione. Agli occhi dell’opinione pubblica continentale, l’Europa perdeva progressivamente legittimità politica a favore degli euroscettici.

Oggi lo stravolgimento improvviso e profondo causato dal SARS-Covid-2, nel riportarci ad una tragica realtà, sembra presentare opportunità inedite. Le manovre delle istituzioni comunitarie, con al centro il piano SURE della Commissione, sebbene scontino alcune comprensibili rigidità, scaturiscono da un principio di solidarietà che ormai, data la serietà della situazione, nessuno vuole o può mettere in discussione. Inoltre, fatto non scontato fino a poco tempo fa, assistiamo giocoforza ad un ritorno prepotente delle tematiche sociali all’interno dell’agenda setting dell’Unione.

Isolare le problematiche serie messe in luce dalla retorica sovranista, per provare a dare risposte europee: questo dovrebbe essere il nuovo assillo di chi si professa europeista. Il sovranismo, abbandonando le logiche nazionali in favore di quelle continentali, verrebbe a perdere il suo potenziale distruttivo nei confronti dell’Unione Europea e rimarrebbe ancorato al nuovo spirito dei tempi: quello che vede nella protezione e nella solidarietà l’unica prospettiva ragionevole in un mondo di insidie.

Se questo sviluppo potrà avverarsi o meno, saranno i prossimi mesi a mostrarcelo. Intanto, è amaro constatare che, come quasi sempre nella storia, sono necessarie grandi tempeste perché si comprenda l’esigenza del cambiamento. Questa volta, tale compito è toccato, tristemente, al Covid-19.

 

Mario Zazzi

Collaboratore esterno - CIVITAS EUROPA

 

Mario Zazzi, studente di Relazioni Internazionali all’Università di Parma, coltiva da anni la sua passione per la politica italiana ed internazionale, aspirando a lavorare in ambito diplomatico o giornalistico. Pratica a livello agonistico il tennis tavolo ed è un avido lettore di tutto ciò che riguarda la storia, l’economia e il costume degli Stati Uniti d’America.

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