Carenza di vaccini: la UE deve sciogliere il nodo esportazioni.
In questi primi mesi della campagna vaccinale globale contro il COVID-19, l’Unione Europea naviga in acque tempestose. Tra ritardi nelle somministrazioni e ritardi nelle forniture, i cittadini europei incominciano a puntare il dito verso la gestione della Commissione Europea[1]. Se il primo punto riguarda principalmente l’azione dei governi nazionali nel mettere in campo piani di inoculazione efficienti, il secondo deve essere discusso e sviscerato nella sua complessità, per non cadere nella semplificazione o nella difesa ideologica dell’azione comunitaria.
Allo stadio attuale, i numeri[2] dicono che 52 milioni di dosi sono state distribuite tra i paesi membri, di cui circa 30 milioni sono state somministrate. La UE ha già sottoscritto contratti con i diversi produttori per 2,6 miliardi di dosi, ma i ritardi e gli screzi con AstraZeneca hanno infiammato il dibattito pubblico, comprensibilmente esacerbato da un anno di difficoltà e paura. Il caos causato dalla sospensione, in via precauzionale in attesa del verdetto dell’EMA, delle vaccinazioni con il vaccino AZ non può che aggiungere una difficoltà ulteriore al processo di accelerazione nella somministrazione, mentre nel Regno Unito milioni di dosi del prodotto AstraZeneca sono state inoculate senza controindicazioni. L’Unione intanto continua la ricerca di nuove dosi, sia raggiungendo nuovi accordi con le case già coinvolte, sia rivolgendosi ad altri attori, quali la Russia e il suo vaccino Sputnik[3], per tutelarsi da ulteriori imprevisti.
A finire sotto accusa sono stati proprio i contratti con le case farmaceutiche, in particolare la mancata inclusione di clausole di priorità e l’assenza di penali in caso di inadempimenti. In secondo luogo, si è sottolineato l’errore di contrattare prezzi più bassi per le dosi destinate all’Europa, in pieno contrasto con la strategia di USA e UK che al momento sta registrando un successo maggiore. Bisogna però ricordare che l’approvvigionamento delle dosi coinvolge tutti i paesi della UE, con le note differenze in termini di capacità di spesa.
Il ruolo dell’Europa nella corsa ai vaccini non è stato affatto marginale, nonostante la cronica mancanza di investimenti in ricerca. Oltre all’ampia platea di ricercatori europei che hanno collaborato con aziende di tutto il mondo nello sviluppo, vanno citate la tedesca BioNTech, che ha sviluppato il vaccino prodotto da Pfizer, e la stessa AstraZeneca, che è in parte svedese e ha attinto alle competenze di scienziati di tutto il continente. Su Pfizer/BioNTech, in particolare, è necessario evidenziare come al finanziamento dello sviluppo del vaccino abbia contribuito il governo tedesco, con quasi 500 milioni di euro da destinare alla ricerca, e non quello americano, che con Operation Warp Speed si è impegnato solo ad acquistare il vaccino una volta approvato[4].
E’ importante ricordare come il territorio dell’Europa Occidentale sia un importante hub produttivo per le aziende coinvolte nella catena di vaccinazione[5]. Se nel Regno Unito sono presenti due stabilimenti di produzione AstraZeneca, altri due sono distribuiti tra Italia e Belgio. Il vaccino Moderna viene prodotto in Germania, Paesi Bassi e Belgio, mentre la produzione dello Pfizer/BioNTech è concentrata tra Germania e Belgio.
Negli ultimi giorni la Commissione è entrata in conflitto con gli Stati Uniti e, soprattutto, con il Regno Unito, sulla fondamentale questione delle esportazioni dei vaccini. I motivi di attrito sono emersi con la pubblicazione delle esportazioni da paesi UE verso il resto del mondo: sono 249 le richieste accettate, per un totale di più di 34 milioni di dosi verso 31 paesi del mondo[6]. Tra questi, il Regno Unito, che ha ricevuto dall’Europa 9 milioni di dosi. Gli USA ne hanno ottenute circa 700mila.
I vertici delle istituzioni europee hanno richiesto che USA e UK pubblicassero i propri dati sull’export, ricevendo un secco rifiuto. Non è però corretto parlare di export ban nelle strategie dei due paesi. Gli USA vantano la presenza sul proprio territorio di tre delle principali aziende farmaceutiche che producono i vaccini, dovendo quindi semplicemente offrirgli remunerativi contratti per i loro prodotti per assicurarsi un de facto trattamento prioritario rispetto al resto delle forniture. UK è in una situazione simile, avendo AstraZeneca e l’Università di Oxford: in questo caso, i dividendi arrivano da un’accurata pianificazione dei contratti e delle forniture nella primavera del 2020, oltre che da decenni di investimenti in ricerca.
Le tensioni UE-UK sono divenute un caso politico quando il Presidente del Consiglio Europeo Charles Michel ha invitato il governo britannico a presentare i dati sulle esportazioni, accusando Londra di avere introdotto un blocco in forma indiretta. In effetti, se come detto non si può parlare di un vero e proprio blocco delle esportazioni, il Regno Unito si è assicurato una fornitura preferenziale attraverso i contratti stipulati, come contropartita dei finanziamenti allo sviluppo del vaccino AstraZeneca/Oxford[7]. A differenza di quanto fatto dalla Germania nel caso di BioNTEch. Una clausola “Europe First”, sul modello di quella “Britain First”, avrebbe di fatto comportato che i vaccini Pfizer prodotti in Belgio e Germania sarebbero stati interamente destinati alla UE, fino a raggiungimento di un surplus.
Michel ha portato la questione alla luce in difesa della strategia vaccinale europea e in risposta alle accuse di “nazionalismo vaccinale” mosse dal Primo Ministro Johnson, che hanno seguito il blocco della partita di vaccini AstraZeneca prodotti in Italia. La mossa è stata sostenuta dalla Commissione per evidenziare le possibili future conseguenze dei continui ritardi nelle forniture europee.
La strategia della UE, è bene ricordarlo, è frutto della sintesi di 27 posizioni differenti, ognuna con le proprie esigenze e soluzioni per soddisfarle. Le negoziazioni con le aziende farmaceutiche sono svolte da un Joint Negotiation Team composto da sette esperti di diversi Paesi europei, nominato e monitorato da uno Steering Committee, al quale siedono i rappresentanti di tutti i Paesi UE.
La ricerca di un prezzo più basso è frutto proprio di questa sintesi di differenti necessità e capacità. La mancanza di clausole stringenti si può ricondurre alla stessa modalità intergovernativa che priva la Commissione di potere negoziale e sanzionatorio, ma anche all’accoglimento delle richieste dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.
L’OMS ha infatti messo ripetutamente in guardia dal dilazionare troppo nel tempo le forniture di vaccini alle regioni più povere del mondo. I paesi che accederanno ai vaccini solo nel 2022 potrebbero diventare incubatori di varianti e lazzaretti a cielo aperto, con la conseguente perdita di vite umane e il rischio di compromettere irrimediabilmente la campagna globale di immunizzazione. Al programma COVAX per l’acquisto di due miliardi di dosi hanno aderito, finalmente, anche gli Stati Uniti dopo il cambio di amministrazione. Ma il monito dell’Organizzazione Mondiale della Sanità è caduto nel vuoto per quanto riguarda i pericoli di imporre priorità alle case farmaceutiche, sia attraverso la legge o attraverso finanziamenti e contratti di fornitura.
Se USA e UK lo hanno totalmente ignorato nell’attesa di immunizzare completamente i propri cittadini, la Russia e la Cina, sembrano interessate a fornirli al resto del mondo, più mosse dall’interesse nell’accrescere la propria influenza che da ragioni puramente sanitarie o umanitarie. La UE è rimasta nel mezzo: l’attuale strategia è infatti coerente fino in fondo con le richieste dell’OMS, ma ciò non sembra portare alcun vantaggio o riconoscimento alle istituzioni europee. Da una parte, la campagna vaccinale fatica a decollare ed è surclassata da quella statunitense e da quella britannica. Dall’altra, nessun cambio di atteggiamento viene richiesto a USA e UK, che vengono indicati come un modello da seguire.
Tutto questo ha aperto un dibattito tra i leaders europei. Il Consiglio Europeo di fine febbraio, in cui si è discussa la possibilità di creare un programma ad hoc di esportazioni verso l’Africa, ha registrato il netto “no” del premier Mario Draghi[8]. Guardando anche al blocco deciso a inizio marzo, la posizione del governo italiano sembra quella di sposare una linea più dura e orientata a soddisfare per primi i bisogni degli europei.
L’Unione Europea si trova a dover scegliere tra la difesa, in questa fase completamente solitaria, del multilateralismo e della cooperazione globale, oppure un atteggiamento maggiormente concentrato sulla risoluzione del problema interno al suo territorio. Quest’ultima opzione sarebbe coerente, come dimostrato, con l’atteggiamento degli altri principali attori in questa delicata fase di lotta alla pandemia. Ma significherebbe anche abbandonare la visione globale della problematica.
C’è infatti un’ultima, amara constatazione da fare: esiste un certo livello di dissociazione tra rappresentazione e realtà nel quadro che si fa della situazione pandemica. Benché la diffusione del virus sottoponga gli Stati a un’interdipendenza di fatto, essi rimangono intrappolati in una rappresentazione etnocentrica e autoreferenziale di sé stessi. Caratteristica, quest’ultima, inerente alla sovranità come certezza unica in un sistema internazionale frammentato e in transizione verso il multipolarismo.
Come sul possesso degli armamenti nucleari, rinunciare per primo comporta una scommessa, un gesto di fiducia che non sempre viene corrisposto da un atteggiamento di “reciprocità” immediata. Questo problema emerge sia nei rapporti tra i paesi membri della UE, gelosissimi della loro sovranità e disposti ad accettare gestioni zoppicanti della campagna vaccinale, sia nei rapporti globali tra gli attori più importanti.
Anche in mezzo alla tempesta del Covid-19, l’Europa rimane un’utopia in costruzione, fondata su una visione cosmopolita che crea dissonanza in un sistema internazionale dominato dalla logica della spartizione. E’ scoraggiante che, in tempi di pandemia, l’Europa sia l’unica a osservare la crisi a partire da una logica di sistema in grado di riconoscere che i contagi che avvengono negli angoli più remoti del mondo condizionano l’intera campagna di immunizzazione, così come la fiducia degli investitori, il flusso e la circolazione di persone, merci, servizi e capitali a livello globale.
Il paradosso ha voluto che l’utopismo europeo fosse più vicino alla realtà dei fatti rispetto a una certa visione circoscritta che prende piede nel nome del realismo. Rimane però l’amarezza di aver dato senza ricevere, di dover allungare con gli ideali le scarse dosi di vaccini su cui possiamo contare in un mondo di “cattivi vicini” che rivendicano un multilateralismo a senso unico.
Riccardo Raspanti, Estefano Soler
CIVITAS EUROPA
Note:
[1] Andrea Scipione ha già affrontato la questione in un articolo apparso sul nostro sito: https://atomic-temporary-174199255.wpcomstaging.com/2021/03/02/lunione-europea-deve-vaccinarsi-contro-il-sovranismo/
[2] Aggiornati al 26 febbraio 2021, i dati sono quelli ufficiali della Commissione Europea.
[3] Vaccino Sputnik, Cavaleri (EMA):” Probabile ok a Maggio”, adkronos.com
[4] Riley Griffin, Drew Armstrong, Pfizer vaccine’s funding came from Berlin, not Washington, Bloomberg, 9 novembre 2020
[5] A questo link è possibile consultare la mappa elaborata da Repubblica su dati della European Data Journalism Network e completa degli stabilimenti legati alla logistica: https://www.repubblica.it/cronaca/2021/03/10/news/vaccino\_anti\_covid-19\_dove\_si\_trovano\_gli\_stabilimenti\_di\_produzione-291570231/
[6] David Carretta, Ecco quanti vaccini ha esportato l’Unione Europea, ilFoglio.it, 10 marzo 2021
[7] Anna Isaac, Why the UK doesn’t need a coronavirus vaccine export ban, politico.eu, 13 marzo 2021
[8] Virginie Malingre, Covid-19 : un Conseil européen inquiet du retard de la vaccination et méfiant vis-à-vis des laboratoires, Le Monde, 26 febbraio 2021
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