Boia chi Lotta
E’ un mondo di conflitti, il mondo degli Anni Venti del XXI secolo. Il parallelismo con il secolo scorso è oramai abusato. A quella generazione uscita dalla Prima Guerra Mondiale ci lega il subbuglio di cuori davanti a trasformazioni epocali che sembrano andare oltre la capacità di assorbimento delle società. Oggi come allora si percepisce necessaria una rottura, per sanare un sistema incrostato e irriformabile.
Eppure, a ben guardare, sono più le differenze. Tra tutte, l’assenza della piazza: o, meglio, delle masse in piazza. Nel secolo scorso, la Prima Guerra Mondiale portò intere generazioni in trincea, le passò nel tritacarne delle Fiandre, del Carso, della Polonia orientale, e le risputò - sconvolte e spezzate - alla vita civile. Oggi, la crisi raggiunge e tocca una generazione anestetizzata all’agire collettivo dalla permacrisi. In Occidente, i movimenti sociali del XXI secolo si sono incagliati nelle secche di una società che ha cullato per più di due decenni l’illusione di avere raggiunto la fine della storia.
La crisi ha raggiunto un punto di non ritorno. Eventi epocali - come la pandemia, i disastri climatici, il ritorno della guerra sul suolo europeo [1] - hanno dimostrato come il modello attuale non sappia travalicare i propri limiti e necessiti, quindi, di una riforma.
L’Europa, questa costruzione incompiuta, rappresenta il laboratorio ideale per sperimentare le possibilità che ogni crisi offre, accanto alle sfide. Eppure, la direzione intrapresa è differente.
Confrontandosi con l’astensionismo, la disaffezione alla politica, la cittadinanza passiva relegata alla sfera digitale, certe forze politiche hanno abdicato al loro ruolo di avanguardia della società, preferendo adattarsi ad un cittadino sempre più utente, che si attiva raramente, anche sulle questioni che lo interessano o lo riguardano in prima persona.
Così facendo, si è spalancata la strada a quelle forze - gravitanti nella galassia destra illiberale - che promuovono una concezione dello stato e della partecipazione avulsa dalle dinamiche democratiche.
Nell’avanzare strisciante dello stato illiberale - verso la meta ideale, l’Ungheria - la repressione del dissenso si costruisce a piccoli passi. La limitazione del diritto a manifestare, la liberalizzazione della violenza delle forze dell’ordine, l’utilizzo dei media come clave per colpire chiunque si opponga ad un progetto che, a ben guardare, è una scatola vuota. Il fine è il potere per se stessi, il controllo delle risorse e della società.
Mentre questo accade, il mondo è in fiamme. La realtà quotidiana è foriera di enormi preoccupazioni: le catastrofi ambientali, le guerre, le epidemie, non sono più possibilità teoriche o echi lontani. Anche gli orrori a noi fisicamente distanti sono oggi vicinissimi, a portata di scrolling.
Nella maggioranza dei cittadini europei si verifica questo drammatico scollamento tra le informazioni cui siamo sottoposti e la percezione riguardante le possibilità per intervenire, protestare: fare qualcosa, insomma.
Tra lo scoramento generale si inserisce il filone del “leaderismo”: quando non si crede di poter decidere nulla, quando il mondo è una matassa intricata di indistinti colori, non conviene forse lasciare le decisioni a quel bel faccione che compare sullo smartphone, in tv, negli spot, nei cartelloni?
L’illiberalismo si nutre di queste tendenze. Si aggira per l’Europa come altre ideologie prima di lui. Sfrutta l’immobilismo, la mancanza di una prospettiva di riforma, il decadere progressivo della vita civile, per convincere più persone possibile che, dopotutto, non contano davvero nulla.
L’illiberalismo - di cui Giorgia Meloni sta diventando riferimento politico e ideologico - corre per smontare tutti i processi faticosamente messi in piedi nel corso degli ultimi tre decenni. Meloni stessa lo ha ribadito 15 ottobre, nelle comunicazioni al Senato in vista del Consiglio Europeo, rivendicando la centralità italiana nel progetto della nuova Europa.
Una velleità legata a quella prigione a cielo aperto calata in Albania grazie ai soldi dei contribuenti italiani, un modello da esportare in un’Europa che già è costellata di muri e campi di detenzione, incapace di progettare la gestione del fenomeno migratorio guardando - se non ai risvolti etici - almeno all'opportunità di risollevare un continente in inverno democratico, prima che demografico.
Ma, dopotutto, aderire alla realtà non serve. L’integrazione comunitaria non serve, l’Europa è una confederazione di stati con interessi particolari e così dovrà rimanere. Il Green Deal è prodotto dell’ideologia, paradossalmente. L’illiberalismo ignora le posizioni della stragrande maggioranza della comunità scientifica sulla minaccia del cambiamento climatico e sulle misure da intraprendere.
I fatti non sono più importanti. Le uniche cose a contare, quando i cittadini non partecipano, sono le parole d’ordine. E quelle della democrazia illiberale sono più squillanti, più incisive, più impattanti.
In questa Europa, nella loro Europa, la democrazia partecipativa sarà per sempre solo un’utopia. Le piazze rimarranno vuote, i governi fermi e sempre più autoritari, i cuori pieni di rabbia. Con conseguenze imprevedibili, ma certamente negative per la democrazia. Perché, nel deserto delle coscienze, nulla di buono può germogliare.
Note: [1]. Chi scrive è consapevole che la guerra, dall'Europa, non si è mai davvero allontanata. Persino la guerra in Yugoslavia, però, non ha avuto l'impatto dirompente della recente invasione russa del'Ucraina.
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